La fame dell’acqua prima ancora di chi ha fame.
La fame saziata prima ancora di esser fame.
In assenza di tempo.
È l’avvio delle folgoranti poesie di Luciano Marconi; anzi il preavvìo, considerato che ad apertura di pagina, prima ancora della pagina bianca, prima ancora della folgore che squarcia, che illumina, che distrugge e testimonia, la notte in un indistinto tempo imperfetto del primo componimento, ululava e tu c’eri non manifestata non corporale con la pura fame dell’acqua.
Tu: e dunque io in esistenziale premessa, in fatale scambio-confronto che nel percorso di tutta la poetica porterà gli opposti a cercarsi e divorarsi in morso e morsa maschile e femminile, in fame appunto eternamente insaziabile ed eternamente saziata.
Da questo prenatale inizio, le altre ventotto poesie con due sole eccezioni testimoniano necessariamente al presente hic et nunc i segni, i segnali istantanei, icastici della folgore: presentissimi e subito assenti.
Brevi infatti le singole poesie: versi di poche parole, anche una sola, incisiva, emblematica (la scala, la tela, l’arco, la freccia: materie di acqua fuoco vento terra luce), senza mai soste di virgole: parole che nel deserto si chiamano, nel miraggio si perdono: punto.
Rimangono gli occhi perduti nella sfera di fuoco, le parole spente per troppa luce, la freccia presa nel fuoco dell’abbaglio, non scoccata. Rimane, vorace, il non dell’assenza a esigere la presenza, il nulla a provocare il verbo e il diverbio (l’eterno gioco) nell’impazienza della vita che sa la morte, della voce che sa il silenzio, del giorno che sa la tenebra, del tu-donna che conosce il tu-uomo, io.
Io/tu/le lingue/intrecciate/nel caduceo (Serpentario): in cui valga nel bisticcio dei serpenti che per destino noi siamo, graziati e condannati a congiungersi e disgiungersi attorcigliati sulla verga di Ermes, valga in chiave poetica il bisticcio delle lingue graziate-condannate a spremer l’anima in parole, e in parole a consumarla.
Agrodolce come tutta l’ars poetica del Marconi (l’agrodolce del bacio tenendo ben strette le labbra): che nella lunga carezza di Cuore deserto (vuote le mani... a cullare il ricordo dei giorni perfetti) già sottintende e paventa poco avanti nascosti gli artigli per meglio ferire; o nella fragole del bimbo in giardino già presagisce macchie di sangue sulla speranza del giorno.
Una minaccia che nell’arco della raccolta, nel suo cammino d’amore, si carica man mano dei toni imperiosi di un monito, un’esortazione: per toccare orizzonti sempre più alti, ultimi, in un crescendo di risonanze (le poesie si fanno di respiro più lungo) che aspirano in extremis alla Luce.
La luce abissale di Lucifero, la nera luce della Dea Oscura splendescens atro nitore in contrappunto con quella (quasi di chiusa) dell’angelo che splende e riluce non di sua forza ma per più alta Luce. Luciano Marconi conduce.
prefazione di Anna Felder
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